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Rosa Brignone intervista Paola Di Nicola
Leggi la trascrizione dell'intervista (editing Time for Equality)

Paola Di Nicola, giudice al tribunale penale di Roma e autrice del libro “La giudice. Una donna in magistratura” è stata intervistata a Lussemburgo da Rosa Brignone.

Dottoressa Di Nicola, siamo lieti della sua presenza a Lussemburgo in occasione dell’evento organizzato da Altrimenti Cultura e Time For Equality, per presentare la sua esperienza di magistrata in Italia ed il suo libro La Giudice. Abbiamo appena partecipato ad un’interessante conferenza a cui ha preso parte anche la Giudice Camelia Toader (ndr), romena, membro della Corte di giustizia dell’Unione Europea che ha sede a Lussemburgo. Ieri ha incontrato i ragazzi italiani della Scuola Secondaria Europea. Per iniziare, ci parli della donna Paola Di Nicola e di come è arrivata in magistratura.

La mia è una storia semplice, normale. È la storia di una persona che, durante l’adolescenza, ha assistito all’esperienza del terrorismo in Italia; mio padre all’epoca era magistrato e questo mi ha permesso di conoscere molti magistrati, alcuni dei quali, negli anni, sono rimasti vittime del piombo della mafia e del terrorismo. Questo vissuto, dal punto di vista umano, mi ha segnata in maniera così profonda da spingermi a diventare io stessa magistrato. La mia esperienza professionale è stata un’esperienza molto forte, sostenuta da una grande motivazione. Quando sono entrata in magistratura, tuttavia, non credevo, proprio in virtù dell’esperienza famigliare, che potesse esistere una differenza tra uomini e donne; il nero della toga e l’imparzialità della giurisdizione, infatti, impongono che ciascuno di noi eserciti la professione indifferentemente dall’appartenenza di genere. A distanza di venti anni di esperienza professionale praticata sul campo, tuttavia, ho dovuto verificare che questa mia convinzione era una convinzione intellettuale, senza riscontro nella realtà.

Dopo venti anni di esperienza professionale, dunque, lei ha osservato la sua carriera a ritroso ed ha rintracciato in questo percorso degli elementi che rivelano come l’appartenenza di genere produca una differenza. Può raccontarci un episodio in particolare, in cui lei ha avuto la consapevolezza dell’influenza del dato di genere nella sua professione?

Gli episodi sono numerosi, sono cominciati sin dal primo giorno, dalla prima udienza e sono continuati fino ad oggi. L’episodio principale è sicuramente quello del primo giorno d’ingresso in magistratura; quel giorno incontrai, insieme ad un collega che aveva superato il concorso insieme a me, il capo del mio nuovo ufficio giudiziario che ci pose alcune domande. Al mio collega vennero chieste informazioni relative alle sue capacità professionali, ai suoi interessi, ai suoi articoli, mentre la domanda che fu rivolta a me fu se fossi sposata e se intendessi avere dei figli. Il mio profilo professionale, la mia motivazione, il mio desiderio di occuparmi di Diritto del Lavoro o di Diritto Penale, non erano considerati. In quel momento mi sono sentita schiaffeggiata e non riconosciuta nel ruolo istituzionale che ricoprivo, ed era solo il primo giorno. Il secondo episodio che posso condividere con voi, risale ad una delle udienze che ho celebrato agli inizi, quando ero più giovane: mi trovavo in aula di udienza, avevo i codici ed i fascicoli davanti a me e la scritta “La legge è uguale per tutti” alle spalle, ero evidentemente l’unica persona nell’aula che poteva essere identificata come giudice, quando un avvocato mi disse: “Signorì, vammi a chiamare un giudice” non riconoscendomi pubblicamente nel mio ruolo istituzionale, per il solo fatto di essere una donna.

Quelli da lei citati sono esempi rivelatori, senza dubbio. Attraverso quali strumenti, dunque, è riuscita a costruirsi un modello di giudice donna? C’è una differenza tra “IL” Giudice, figura neutra, e “LA” Giudice, che dà il titolo al suo libro?

Con fatica. Nel nostro ambito professionale, come in tutti i luoghi di potere in cui le donne hanno raggiunto una posizione elevata, esiste la tendenza ad omologarsi al modello maschile, ad assumere le sembianze, anche fisiche, di un uomo, attraverso l’abbigliamento, il timbro della voce, l’aggressività, ma soprattutto attraverso il linguaggio, attribuendosi una denominazione al maschile, chiamandosi “Il Giudice” anziché “La Giudice”, come se il maschile fosse una sorta di viatico per essere riconosciute istituzionalmente. Ad un certo punto della mia vita professionale, quando ho raggiunto la piena consapevolezza di questo “limite”di genere, o dagli altri ritenuto tale, ho voluto indagare la ricchezza che scaturisce dalla mia appartenenza al genere femminile. Io sono una donna ed a partire da questa appartenenza di genere entro in magistratura portando con me anche la storia di esclusione delle donne dall’esercizio della giurisdizione. Vorrei ricordare che in Italia, fino al 1963 alle donne era vietato l’ingresso in magistratura e proprio ieri ho appreso che la Spagna non ha avuto delle giudici fino al 1975. Perché tutto questo? Perché le donne sono state a lungo escluse dal luogo di potere per eccellenza; la giurisdizione, ovvero l’ambito in cui avviene l’interpretazione della legge.

Il suo libro è stato pubblicato nel settembre 2012 e in pochissimi mesi ha venduto 3000 copie; un grande successo per un libro che appartiene al genere saggistico-narrativo. Questo dato ci fa ritenere che molte persone si siano riconosciute nella problematica da lei sollevata. Lei trova che la questione di genere in ambiti legati all’esercizio del potere, come la magistratura, sia una questione europea, per non dire globale, o sia specificamente italiana?

Prima di tutto vorrei ringraziare la Libreria Altrimenti e la sua iniziativa Time For Equality per avermi invitata e questo grazie a lei, dottoressa Brignone, che ha avuto l’intelligenza e la sensibilità di capire che la problematica che descrivo nel mio libro non può essere circoscritta all’ambito italiano. Grazie alla serie di incontri organizzati a Lussemburgo, ho potuto conoscere, attraverso il racconto della Giudice della Corte di Giustizia Europea, il contesto romeno e quello europeo, e la situazione di tanti altri Paesi grazie alla testimonianza delle molte persone che erano presenti all’incontro-dibattito, provenienti da Spagna, Francia, ecc. Tutte le donne con cui ho parlato mi hanno confessato di essersi riconosciute nella mia esperienza, confermandomi che la problematica è profonda e travalica i confini nazionali. L’interesse per il libro, evidentemente, non riguarda la mia vicenda personale, ma il fatto che raccontandola porto allo scoperto una realtà difficile da accettare nel 2013; è complicato riconoscere che ancora oggi esiste una questione di genere, intesa come assenza di riconoscimento dell’arricchimento rispettivo, come pregiudizio nei confronti delle donne che valica i confini e riguarda qualsiasi professione, qualsiasi.

Nel corso dei dibattiti, e delle conversazioni successive agli eventi, è emerso spesso il tema degli stereotipi e si è posta la domanda “cosa possiamo fare per cambiare questo stato di cose?”. Se lei dovesse lasciare ora un messaggio positivo, a partire dalla sua esperienza e dagli incontri che ha avuto in occasione delle numerose presentazioni del suo libro in Italia e adesso anche nel cuore dell’Europa, come lo riassumerebbe?

Lascerei lo stesso messaggio che ho condiviso ieri con gli studenti e le studentesse della Scuola Europea di Lussemburgo, e cioè di credere in se stessi e nelle loro capacità senza restare prigionieri degli stereotipi di genere che non consentono loro di esprimere la ricchezza che hanno dentro, le loro emozioni e le loro straordinarie differenze. Quando riusciranno a liberarsi di questa armatura che società e cultura impongono, ancora oggi, e saranno liberi di essere se stessi, quello sarà il giorno in cui potremo dirci tutti liberi, finalmente.

La ringrazio, dottoressa Di Nicola, per averci regalato la sua presenza a Lussemburgo.

Grazie a voi di avermi offerto questa straordinaria occasione.

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