GIULIA GALIOTTO
Nel buio dell’inverno, Giulia Galiotto giace nel fiume Secchia. È stata gettata da un pontile, è precipitata sul bordo, sulla massicciata di sassi e cemento. L’acqua è alta pochi centimetri, la corrente non riesce a trascinarla nello stretto canyon dalle pareti di arenaria. «Nella caduta, sul corpo già devastato si producono altre fratture e contusioni, soprattutto a una spalla. Poca l’acqua, ma gelida, a lambire quel volto martoriato, colorandosi di sangue. Per più di tre ore rimarrà lì, nel freddo silenzioso di quella sua ultima notte, sola, alla mercé degli animali selvatici – nutrie in particolare – che infestano il fiume, lei che inorridiva terrorizzata alla vista di un innocuo ragno, pur amando gli animali domestici».
Giovanna Ferrari racconta così, nel libro Per non dargliela vinta. Scena e retroscena di un uxoricidio, quel che è accaduto a sua figlia. Era l’11 febbraio del 2009, quando il marito Marco Manzini l’ha assassinata. Giulia aveva trent’anni. Non c’erano mai stati episodi di violenza fisica. La giovane donna, molto legata alla famiglia, non ne aveva raccontati. Non c’erano state denunce né referti del pronto soccorso. Il matrimonio era in crisi, qualche tempo prima lei se n’era andata di casa, dormendo una notte dai genitori, per fare ritorno dal marito il giorno successivo. Sembrava ci potesse essere un margine di soluzione, nonostante si fosse parlato di separazione.
La sua ultima sera Giulia sperava in una riconciliazione: pensava che lui le avesse dato appuntamento a casa dei suoceri perché lì aveva tenuto la sorpresa, il regalo di Natale non ancora ricevuto. Dopo sarebbero andati insieme a cena. Da maestra delle elementari in pensione, Giovanna si è ritrovata a diventare scrittrice suo malgrado, per fornire la sua cronaca dei fatti.
«Ho scritto per necessità, per ridare a mia figlia la dignità che le è stata tolta da morta. Le indagini sono state condotte in modo da fare emergere il movente della gelosia del marito, quando a lui non importava più nulla di lei. Durante le udienze in tribunale si è tentato di descriverla come una poco di buono, di renderla colpevole della sua stessa morte. Una linea difensiva che dimostra l’arretratezza in cui viviamo: la gelosia viene considerata una giustificazione per l’uomo violento».
Le pareti della sala da pranzo, nella casa di Pigneto, frazione di Prignano, in provincia di Modena, dove Giovanna Ferrari vive col marito Giuliano Galiotto, sono coperte dalle foto di Giulia. Sembra di sentire l’eco del suo riso guardando gli occhi limpidi e il sorriso aperto.
« Credevo che le vittime trovassero spazio nelle aule di giustizia e invece è la parola dell’assassino a contare: lui può fornire qualsiasi versione per tutelarsi. Non hanno voluto dargli l’aggravante della premeditazione anche se gli elementi c’erano ».
Il sasso usato come arma, ad esempio. Il padre di Manzini, prima che gli avvocati lo descrivessero come inaffidabile, in pura strategia difensiva, aveva dichiarato di non averne di simili in casa, nel garage o nel giardino. Era un masso compatibile col fondo di un fiume, e questo porta a chiedersi se qualcuno l’abbia portato apposta. L’assassino di mia figlia avrebbe dovuto essere condannato a trent’anni, ma evidentemente ammazzare una donna non vale così tanto in Italia. Gli hanno dato diciannove anni e quattro mesi. Lui aveva l’amante, voleva salvare le apparenze, non accettava l’idea della separazione. Un movente banale, certo, ma purtroppo diffuso.
I legali di Manzini hanno insistito, per tutto il processo, sul raptus, chiedendo che gli venisse riconosciuto il vizio parziale di mente. Ho scritto per raccontare la verità che ci è stata scippata.
È il punto di vista di una mamma, ma non ho mai aggiunto nulla alla realtà: la personalità di Giulia emerge dai racconti delle sue amiche e di chi le ha voluto bene. Era una persona sincera, onesta, leale e solare».
I pretesti dello scoppio d’ira e dell’infermità mentale sono usati con frequenza dai legali degli assassini di donne. Nonostante una ricerca dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca dimostri che in genere i femminicidi sono «l’esito di una lucida e irrevocabile programmazione pianificata nel tempo», metà delle assoluzioni è dovuta al riconoscimento dell’incapacità di intendere e volere.
LETTERA DI GIOVANNA FERRARI ALLA FIGLIA GIULIA
Tesoro caro, ho cercato in questi anni di riempire il vuoto e lo sgomento della tua perdita, che non è stata solo la perdita di quel legame viscerale e inscindibile che c’è tra madre e figlia, l’unicità di quell’intreccio di anime che non si può separare senza lacerazioni profonde. Con te se ne sono andate la luminosità del tuo sorriso, la tenerezza e la spontaneità delle tue braccia sempre tese all’incontro, alla condivisione, presenza quasi prepotente nel bisogno. Si può perdere una figlia, ma non così.
Così si perdono anche i pilastri fondanti di tutta una vita.<
Perché la morte per femminicidio non cancella solo il sorriso e l’amore per la vita, ma nega il diritto stesso al sorriso e alla vita.
Indegna di esistere e senza dignità anche nella morte. Il silenzio che allontana dalla coscienza collettiva questi crimini non è il silenzio del rispetto, ma l’omertà ipocrita di chi assolve, giustificando, l’assassino, per gettare colpe e discredito sulla vittima. Ho cercato con le mie povere forze di rompere il silenzio. Te lo dovevo e, in un certo senso, è stato come camminarti ancora a fianco. Non certo per tornaconto personale: niente e nessuno riavvolgerà il nastro della tua storia, delle nostre storie, per cambiare il finale. Al contrario, ho incassato altre sconfitte e tanta amarezza. Ho raccolto il dolore di tante altre madri, di tante altre donne stritolate dagli ingranaggi perfidi della violenza che, ben lungi da essere un fatto privato, è politico e culturale.
I piccoli passi in avanti sembrano venire fagocitati dal buco nero della più retrograda delle misoginie. Sono stanca di parole, stanca di combattere contro i mulini a vento.
C’è sempre un rovescio della medaglia: da un lato la sofferenza e la solitudine delle vittime e di coloro che le hanno davvero amate; dall’altro l’aridità del «mors tua, vita mea», che non esita a speculare sul dolore di vite infrante. O a passarci sopra con indifferente superiorità. Sta usurandosi anche l’ultimo pilastro che dava un senso al moncone della mia vita: credere, sperare, lottare per un mondo più giusto, dove i diritti siano ugualmente appannaggio di tutti, senza discriminanti sessuali, razziali, religiose. Mi aggrappo a coloro, donne e uomini, che ancora conservano questa rara traccia di umanità, con la riconoscenza di un naufrago che trova una nuova terra in suo soccorso.
Nello stesso tempo mi rendo conto che mai come in questi tempi bui occorre il machete per aprirsi un varco nella giungla di falsi profeti, di falsi eroi, di falsi amici, perfino di falsi affetti. E tu, paradossalmente, tu che non ci sei più, sei più che mai la stella polare che mi orienta.
GIACOMO
«La memoria cancella le cose buone che ci hanno fatto bene. Tendiamo a ricordare quelle brutte. I momenti belli tornano alla mente solo attraverso i filmini. C’è stato un periodo in cui arrivavo da scuola, infilavo la cassetta con i video di mia madre Miriam nel registratore e la guardavo. Non volevo che il suo ricordo svanisse. Le immagini che sbiadiscono fanno molto male agli orfani di femminicidio. Non solo si deve metabolizzare il dolore dell’omicidio, la fatica di crescere, la consapevolezza di avere un padre assassino. C’è la memoria che inizia a vacillare». Giacomo ha ventuno anni ma, come dice lui, gli «orfani speciali», cioè i figli di madri uccise dai padri, crescono molto più in fretta degli altri. «Ci troviamo in classe con altre bambine e bambini e siamo diversi, anche se non vogliamo essere considerati tali, perché siamo noi che dobbiamo scegliere cosa e come essere. Noi capiamo alcune cose prima. Gli altri se vedono uno schiaffo ci rimangono male invece noi orfani di femminicidio, in quei momenti, ripercorriamo le nostre vite: per noi quella sberla è un dolore immenso».
Con il femminicidio vengono meno tutti i parametri di normalità di “perdita” di un genitore». Non avere più la madre perché l’ha uccisa il proprio padre è il trauma nel trauma. Ci sono ricordi fissati nella memoria dei primi anni di vita che riemergono come lampi uditivi, tattili e visivi. Si stima che 427.000 minori, in cinque anni, in Italia, abbiano vissuto la violenza sulle madri tra le mura di casa. Bambini e bambine che hanno assistito direttamente ai maltrattamenti oppure hanno visto i lividi, le ferite, le porte, le sedie e i tavoli rotti in casa.
«Nella mia storia fa rumore l’omicidio, ma dovrebbero colpire anche le violenze fisiche e psicologiche subite da mia mamma. Lui era geloso fino all’ossessione e con la separazione la situazione peggiorò». «Lei aveva sviluppato la certezza che prima o poi l’avrebbe uccisa. Arrivavano minacce di morte, i parenti le dicevano di non uscire di casa da sola ma lei voleva vivere. E con questo non intendo divertirsi in modo folle, semplicemente lavorare, andare in parrocchia, uscire con mé. Mia madre amava la libertà. Mio padre sbucava fuori dal nulla: la prendeva per i capelli, le dava calci e pugni, davanti a tutti. Una volta lei era in un camerino, lui arrivò e le tirò un pugno. Mi ricordo i posti dove accadeva perché entravo nel panico e mi guardavo attorno.
La picchiava di sera e ci sbatteva fuori casa, sulle scale, al freddo per tutta la notte e lei piangeva e mi prendeva in braccio. Durante un’udienza di separazione, mio padre mi trascinò dal parcheggio del tribunale fino all’aula per il colletto della maglietta. Cercavo di ribellarmi ma non riuscivo a toccare terra con i piedi. Quindi entrò nell’aula urlando: guarda quella puttana di tua madre. Ricordo precisamente il senso di disperazione, ero perso, non sapevo cosa stesse succedendo».
Giacomo, al compimento dei diciotto anni, ha cambiato il cognome con quello materno. Da maggiorenne ha voluto assumere un ruolo pubblico.
«Passava il tempo e il dolore cresceva. Appena sentivo di un femminicidio, era come se mia madre venisse continuamente uccisa».
* I nomi sono stati cambiati per tutela dell’orfano di femminicidio
CRISTINA GOLINUCCI
L’utilitaria arranca sulla salita ripida che porta al convento dei frati cappuccini di Cesena. Alle sette e mezzo di mattina il piazzale è deserto. Marisa Golinucci parcheggia la sua auto nel posto dove ventotto anni fa venne ritrovata la Cinquecento turchese di sua figlia, vuota e chiusa a chiave. Il vento di settembre sembra gelido, l’ombra degli alberi alti ci cade addosso. «Chissà se Cristina ha fatto i gradini oppure ha girato di là, sulla strada», dice Marisa, reggendosi col bastone e salendo a piccoli passi la scalinata in ferro. Il respiro è affaticato. Non si stanca mai di raccontare la storia della scomparsa di Cristina, sua figlia: non ha smesso di cercarla, nemmeno per un giorno. «Questa porta prima non c’era, adesso i frati entrano da lì, dove hanno le camere per dormire» dice, socchiudendo le palpebre.
«Fórse, se fossimo venuti subito con i cani, la avremmo trovata. Adesso è tutto cambiato da quei giorni. Qui hanno costruito il muretto, quegli spazi erano in ordine, coltivati». Sospira, guardando giù, verso la pianura.
Cristina Golinucci è scomparsa il primo settembre 1992.
Aveva ventuno anni. Era da poco tornata da un campo estivo, nel quale aveva fatto l’animatrice. Quel giorno avrebbe dovuto incontrare padre Lino, suo confessore e confidente.
«È uscita di casa alle due meno cinque del pomeriggio e mi ha detto che ci saremmo riviste la sera, per andare insieme alla festa della nostra frazione, Ronta. Mentre ero in casa per i lavori, alle due e venti, improvvisamente tutto iniziò a scivolarmi dalle mani, come se fossero diventate di burro. Era lei, chiedeva il mio aiuto, l’ho capito solo più tardi».
Nel tardo pomeriggio, non vedendola rientrare, la madre iniziò a preoccuparsi. Andò al convento, ma padre Lino non la fece entrare.
Il frate diede versioni contraddittorie di quelle ore cruciali. Inizialmente disse di avere aspettato Cristina davanti al portone dopo che lei gli aveva annunciato la visita al telefono. Successivaménte raccontò di stare dormendo e poi di essere impegnato in lavori di manutenzione con alcuni ospiti.
«Convinta che mia figlia fosse scomparsa vicino al convento, chiesi subito un’ispezione dentro la chiesa, anche col cane molecolare, ma Lino si oppose e ci sbatté la porta in faccia. Tornai per molte volte, venimmo in tanti, a fare sit-in di protesta: non servì. Per il prete non c’era nulla da cercare, le persone che ospitava erano bravi ragazzi».
Le autorità competenti non presero subito sul serio la sparizione della «ragazza alta un metro e sessantacinque, dalla corporatura robusta, coi capelli castani e gli occhi azzurri», come veniva descritta negli appelli per le ricerche, e lo considerarono un allontanamento volontario. Eppure, per Marisa e il marito, era impossibile che se ne fosse andata spontaneamente. Era una giovane senza grilli per la testa e non aveva mai fatto mattane, dichiararono all’epoca ai giornali. Aveva un lavoro, era legata alla parrocchia dove faceva volontariato, era affezionata alla famiglia. Le settimane successive, sempre nella zona, si persero le tracce di un’altra donna, Chiara Bolognesi. In seguito a una segnalazione anonima, il suo corpo venne ritrovato nelle acque del fiume Savio. Per le indagini ufficiali si trattò di suicidio.
«Abbiamo cercato Cristina dappertutto: abbiamo guardato nei pózzi, nei campi e nei prati se c’era della terra smossa. Seguivamo le segnalazioni, incluse le sensitive. Abbiamo fatto di tutto e di più».
La svolta sembrò arrivare tre anni dopo, nel 1995, quando non lontano dal convento dei frati cappuccini una ragazza venne stuprata. Fu arrestato un giovane straniero, chiamato Emanuel che, al momento della scomparsa di Cristina, era ospite al convento. Mentre era in prigione padre Lino andò a trovarlo e gli chiese se fosse responsabile della sparizione. Il padre riferì ai carabinieri che lo stupratore, piangendo, avrebbe risposto: «Sì sono stato io», aggiungendo di essere una bestia, un assassino, chiedendo perdono a Dio per quello che aveva fatto.
Si trattò di una confessione senza riscontri, neppure dalle intercettazioni ambientali disposte successivamente: non venne mai più ripetuta. Nel 1998, scontati i tre anni di condanna per stupro, Emanuel fece perdere le sue tracce. Nel luglio del 1997, nel convento, ci fu la prima vera operazione di controllo delle diverse aree, dalla cisterna profonda quindici metri, alla dispensa, alle cantine, ai cunicoli sotterranei. Padre Lino, in seguito alla perquisizione, scrisse una lettera piccata alla famiglia Golinucci, definendo il sopralluogo «umiliante». Le parole di rimprovero non intimorirono la madre. In un’intervista all’Huffington Post del 17 novembre del 2018 ha dichiarato: «Penso che il cadavere di mia figlia sia stato fatto sparire nel convento dei frati oppure lì vicino. Ma da parte del priore di allora le indagini sono state ostacolate.
Nel frattempo, padre Lino si ammalò. Marisa andò in ospedale a trovarlo, per vedere se in punto di morte avesse qualcosa da rivelare.
«Mi ricevette, però si vedeva che non era in sé. Gli dissi: sono la mamma di Cristina. Lui rispose: ah Cristina, ce l’ho qui. E indicò il cuore. Non ebbi il coraggio di andare avanti».
Negli anni ci sono state telefonate anonime, presunti avvistamenti.
Ho sempre avuto la speranza che qualcuno mi aiutasse a trovare la verità. Quello di mia figlia è stato un femminicidio, ne sono certa, vorrei almeno trovare le ossa e poterla seppellire».
LAURA RUSSO
LETTERA DI GIOVANNA ZIZZO ALLA FIGLIA
Ciao piccina mia,
vorrei tanto chiederti: come stai? Hai mangiato? Senti freddo? Cosa pensi? Vorrei tanto accarezzarti, pettinare i tuoi lunghi e morbidi capelli, guardarti negli occhi e capire in un attimo cosa ti passa per la testa. Vorrei tanto, ma non posso più farlo. Ti ho voluta con tutta me stessa, ho rischiato la mia vita per donarla a te e non avrei mai pensato di doverti seppellire a soli undici anni.
Mentre ti scrivo, il cuore si stringe e si fa piccolo piccolo, diviso tra i ricordi felici e il buio degli ultimi cinque anni.
Tu eri il nostro piccolo uragano, a scuola tutti ti chiamavano Peperina perché avevi sempre la risposta pronta, e la tua risata, che ti rendeva così unica e inimitabile, risuonava limpida e forte.
Non avrei mai pensato di doverti lasciare in questo modo, di perderti per mano di colui che ti ha generato. I mostri esistono e delle volte sono proprio accanto a noi e non ce ne rendiamo conto. Tu dormivi accanto alla persona che avrebbe dovuto proteggerti da tutti i mostri, invece, da vigliacco, ti ha tradita colpendoti nel momento in cui eri totalmente indifesa.
Hai lottato, non volevi andare via, ma non ce l’hai fatta. E sono certa che non hai lasciato nemmeno per un istante la tua sorellina mentre anche lei si batteva per vivere. In quei giorni terribili, tu andavi via e lei, vicina alla morte per colpa della stessa mano vigliacca, riaveva la vita. Manchi tanto a lei.
Manchi tanto Lauretta ai tuoi fratelli che ogni giorno devono convivere con l’orrore di quella mattina di sangue, con i sensi di colpa per non essere riusciti a salvarti
Sai? In un quaderno di scuola ho trovato il tuo sogno nel cassetto: creare un centro dove sarà possibile accogliere animali abbandonati e maltrattati. Ti prometto che lotterò affinché si possa avverare e mi prenderò cura, come tu sognavi, di queste creature che tu amavi moltissimo.
E, amore mio, non smetterò di camminare nel tuo nome, finché ne avrò la forza, per raggiungere tutti i ragazzi che Dio mi permetterà di incontrare. Perché spero, con tutto il cuore, che ciò che è accaduto a te, possa non accadere mai più.
Ogni istante, piccina mia, dammi la forza di continuare a sopravvivere, di lottare per te.
Tu sei nata per sempre, e giorno dopo giorno vivrai attraverso me, io sarò la tua voce e griderò per te.
Ti amo mia piccola stellina
La tua mamy
Estratti dal libro “Le conseguenze” di Stefania Prandi @2020, Settenove. Tutti i diritti riservati
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