Paola Di Nicola, La Giudice. Una donna in magistratura, Ghena, 2012

Foto di Silvia Guzzetta
“Mi sentivo osservata da tutti perché ero fuori posto, fuori contesto, con quella camicetta a fiorellini piccoli che mi aveva regalato mia sorella Elisa e la collana di perle di zia Luciana. I miei amuleti dei giorni difficili che, però, lì dentro, stonavano in modo inopportuno con le divise blu scuro della polizia penitenziaria. Nel carcere non potevano esserci colori vivaci, occhi azzurri ridenti e capelli biondi leggermente spettinati, accompagnati da quel frivolo ticchettio sul pavimento. Percepivo che con quel modo di apparire, di camminare, di riempire i corridoi avrei rischiato di non essere presa sul serio, per quello che ero e che istituzionalmente rappresentavo” (p.15).
Paola Di Nicola descrive così il senso di inadeguatezza che prova attraversando i corridoi del carcere di Poggioreale a Napoli; un’inadeguatezza che non le deriva dalla scarsa professionalità, ma dall’insicurezza che le infonde la sua femminilità, in pieno contrasto con l’ambiente carcerario e che le insinua il pensiero che per il solo fatto di essere donna non sarà considerata autorevole e rispettabile nel suo ruolo. Questa sensazione inaugura un duello interiore tra l’insicurezza che improvvisamente le trasmettono i capelli biondi e le scarpe col tacco e la necessità di non perdere di vista la sua funzione istituzionale, che Di Nicola comincia a combattere mentre si dirige dal detenuto che dovrà interrogare, che prosegue durante l’interrogatorio e che solo una volta vinto le restituirà il senso della vista su se stessa, sul suo corpo e sulla sua scelta professionale.
Perché il dubbio di non apparire autorevole in quanto donna? Perché questo timore torna come un tarlo nella mente della giudice Di Nicola, quando si domanda se le persone presenti nell’aula di tribunale non avrebbero preferito trovare un uomo al suo posto?
“Le signore e i signori presenti in aula non sapevano che fosse una donna a esaminarli, interrogarli, giudicarli. Sul foglio ricevuto a casa c’era scritto un nome puntato e un cognome. Anonimi e senza differenza come la toga nera […] Sono una donna e mi chiamo Paola. Vorrei essere nella mente di coloro che ho di fronte, per sapere se avessero sperato di avere di fronte un Pietro, un Patrizio, un Paolo, un Pierluigi, un Piercamillo e non una Paola. Ma, più ancora, vorrei sapere il perché: la domanda in cui si annidano secoli di pregiudizi” (p. 41).
Perché, dunque, la giudice Di Nicola è portata a chiedersi se l’appartenenza al genere femminile la renderà meno autorevole di fronte ad un imputato e ad un’aula di tribunale? La risposta è offerta a più riprese e con estrema chiarezza dall’autrice: anche lei, come tutte le giudici, ha ereditato una storia di esclusione dall’esercizio della magistratura e come tutte le donne porta con sé una memoria millenaria di subordinazione e marginalizzazione.
Paola Di Nicola è, a sua volta, figlia di un giudice e sin da bambina è stata circondata dai colleghi di suo padre, uomini autorevoli e con un profondo senso dello Stato, che hanno rappresentato per lei un modello ed uno stimolo ad entrare in magistratura, ma che non potevano spiegarle che la toga assume un significato diverso a seconda che ad indossarla sia un uomo o una donna (video intervista).
I suoi punti di riferimento non potevano spiegarle il peso della differenza di genere, per il semplice fatto di non averla mai vissuta:
“mentre per un uomo c’è solo – si fa per dire – la difficoltà oggettiva di mettersi alla prova per quello che si rappresenta e che si è, ovvero per la propria professionalità; per una donna si aggiunge un altro pezzo, che necessariamente precede questo: essere riconosciuta dal proprio interlocutore, chiunque esso sia, come magistrato e non come l’altra metà del cielo che, per millenni, è stata estromessa da qualsiasi luogo decisionale perché inadeguata, incapace, irrazionale” (p. 29)
Donne e magistratura in Italia: una storia di esclusione
Prima di entrare in magistratura, Paola Di Nicola ignorava che questa professione fosse stata negata alle donne per una scelta consapevole di esclusione. La storia conserva invece la memoria di questa discriminazione e la giudice non ha paura di sollevare la polvere che si è posata sui lavori dell’Assemblea costituente e sul dibattito che si svolse per decidere se concedere o meno il diritto alle donne di svolgere l’attività di magistrati. Così, Di Nicola ci accompagna nella biblioteca della Cassazione, nel settore che custodisce i lavori dell’Assemblea e ci offre uno scorcio su questo fondamentale passaggio della Repubblica italiana, ripercorrendo la varietà di stereotipi di genere che furono messi in scena in quell’occasione e che dipingevano le donne come isteriche e passionali o come un piacevole contorno delle istituzioni maschili. All’epoca l’Assemblea optò per un generico principio di uguaglianza, rimanendo silente sull’opportunità per le donne di diventare giudici. Da allora, il primo concorso pubblico aperto alle donne è avvenuto nel 1963 (scheda tematica: Donne e Magistratura in Italia).
In Italia, le donne sono state escluse dalle aule di giustizia non solo come giudici, ma persino come vittime e l’autrice non tralascia di ricordare questa ferita, soffermandosi a tal proposito sul celebre processo per stupro di Latina. È il 1978 e l’allora diciottenne Fiorella porta in tribunale i quattro uomini dai quali è stata sequestrata e violentata per un giorno interno. Il processo viene ripreso dalle telecamere e trasmesso l’anno successivo dalla RAI con il titolo Processo per stupro, offrendo all’opinione pubblica italiana l’immagine di una giustizia violenta nei confronti delle donne, tanto da consentire atteggiamenti goliardici tra gli uomini presenti in aula, avvocati, imputati e giudici, ma soprattutto, la trasformazione della vittima in imputata (scheda tematica: Processo per stupro).
Il soffitto di cristallo
Dall’ingresso delle donne in magistratura, al processo per stupro, ai giorni nostri, “si è consumata una rivoluzione silenziosa […] si tratta del terremoto generato dall’ingresso massiccio, dopo millenni, di un punto di vista negato, di una storia nascosta, di una cultura violentata, all’interno del luogo maschile per eccellenza” (p. 68).
La rivoluzione, tuttavia, non è compiuta. Sebbene il numero di donne in magistratura, dal 1963 a oggi, sia cresciuto in maniera esponenziale, Di Nicola nota come in vent’anni di carriera non abbia mai avuto una collega come capo del suo ufficio e i numeri confermano questa semplice constatazione empirica:
“Nel 2010 su 153 presidenti di Tribunale solo 12 erano donne (l’8%), così come di158 procuratori capi della Repubblica solo 11 erano donne (il 7%); a distanza di soli due anni le donne dirigenti di uffici giudicanti sono diventate il 18%, con un aumento quasi del doppio, mentre nelle Procure oggi sono l’11%. Presso la Corte di Cassazione ci sono attualmente 3 presidenti di sezione donne (su 44) e 59 consigliere (su 230) […] nella Procura generale presso la Corte di cassazione siedono 4 donne su 52 uomini […] e solo due sono le colleghe attualmente esponenti del Consiglio superiore della magistratura” (p. 101).
Se ci fossero più donne ai cosiddetti “piani alti”, si domanda l’autrice, le cose andrebbero diversamente? Ma nel rispondere rivela immediatamente un forte scetticismo nei confronti della riduzione del problema ad una questione quantitativa; come la sua stessa esperienza personale insegna, “esserci” come donne non basta, “bisogna esserci con il coraggio e la consapevolezza del proprio punto di vista, dopo averlo focalizzato e valorizzato” (p. 104).
Il genere nel linguaggio
Verso la conclusione Di Nicola torna a riflettere sul linguaggio, su quell’uso del maschile come neutro, che assorbe il femminile cancellandolo ( scheda tematica: Linguaggio e genere). Avviene nei codici, dove l’autore del reato e la vittima è sempre l’ “uomo”, anche laddove genera paradossi logici, come nella norma che punisce le mutilazioni genitali femminili e indica la vittima utilizzando il maschile. Come può darsi che gli organi genitali femminili vengano lesionati ad “un” minore, ad “un cittadino”? – chiede retoricamente Di Nicola.
“L’uomo è la categoria omnicomprensiva, l’essere donna è un “elemento indifferente”, al più un corpo che riproduce esseri umani. E così cancelliamo, con un tratto di penna, tutte le donne che vengono uccise ogni donne per essere tali, perché I loro uomini non accettano la fine di un amore o il loro desiderio di autonomia” (p. 128).
Ma la neutralizzazione del femminile nella lingua, avviene anche nel linguaggio comune e nel modo di riferirsi a determinate professioni, un esempio su tutti “Il giudice” che pretende di essere sia maschile che femminile.
Al termine di un faticoso percorso di consapevolezza e valorizzazione della differenza sessuale in un contesto che si pretende neutro, Di Nicola sceglie di farsi chiamare “La” giudice.
“Il neutro maschile della lingua, del diritto, delle parole, mi ha annullata senza chiedermelo e io, a mia volta, l’ho acquisito senza protestare, senza interrogarmi, come ho fatto quando studiavo il mio testo di diritto penale, senza chiederne conto a nessuno” (p. 158).
Oggi, consapevole della propria appartenenza di genere e del proprio ruolo nel mondo, può andare in tipografia e chiedere un timbro con la scritta “La giudice Paola Di Nicola”.
Del resto quale uomo accetterebbe di farsi appellare utilizzando l’articolo femminile?
Carla Fronteddu, Time for Equality 2013
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